Come si arriva alla strage di Bologna. Il libro di Cinzia Venturoli e Antonella Beccaria
storia
Il volume di recentissima pubblicazione, con la promozione della Biblioteca comunale, è stato presentato a Budrio in Piazza Antonio nella serata di giovedì 1 agosto. Insieme alle autrici Cinzia Venturoli e Antonella Beccaria, erano presenti Ilaria Moroni (Direttrice dell’archivio Flamigni) e Sergio Amato, figlio del giudice Mario Amato ucciso il 23 giugno 1980 da due esponenti dell’organizzazione eversiva neofascista NAR (Cavallini e Ciavardini), mentre era titolare delle inchieste sul terrorismo nero nel Lazio.
Operazione Bologna. 1975-1980: l’inarrestabile onda della strategia della tensione.
Ed. Castelvecchi 2024
A lungo si è creduto che la strategia della tensione si fosse conclusa a ridosso della metà degli anni Settanta. Le ultime inchieste giudiziarie, culminate nel processo ai mandanti celebrato a Bologna, certificano che quell’ipotesi è sbagliata. Tra il 1975 e il 1980 c’è stato un crescendo di violenza che non è l’esito di un progetto concepito e attuato unicamente dalla generazione più giovane di terroristi di estrema destra. La documentazione più recente dimostra infatti la regia delle organizzazioni neofasciste della vecchia guardia, legate a piani geopolitici orchestrati dalla loggia P2. Uno scenario di trame oscure che «scavallò la metà degli anni Settanta e preparò il più ferale degli attentati che l’Italia repubblicana abbia conosciuto»: la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980.
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Io voglio giustizia. Voglio verità e giustizia. Non è molto, ma sembra impossibile ottenerle. Io chiedo che i responsabili vengano cercati, trovati, puniti. Senza cuore? Ma è proprio perché di cuore ne ho che dico che bisogna andare avanti. Queste tragedie sono personali e individuali, ma sono anche pubbliche e sociali. Se ognuno si rinchiude in se stesso, si smarrisce la dimensione collettiva. Scema la tensione morale, si dimentica. E fra qualche anno saremmo ancora qui a piangere altre disgrazie, a seppellire altri morti innocenti. La giustizia diventa esempio, aumenta la vigilanza, fa crescere la consapevolezza.
Così affermava nel 1989 Torquato Secci, primo Presidente dell’Associazione fra i familiari delle vittime della strage del 2 agosto, sottolineando come ottenere verità e giustizia sia un diritto, in primo luogo, di chi è stato colpito da quel crimine, ma lo sia egualmente anche per l’intera comunità quando si tratti di «crimini grandi e sproporzionati». Verità e giustizia sono un binomio solido: la verità è «precondizione di giustizia. E se un tribunale deve fare giustizia – accertare fatti, definire responsabilità, applicare sanzioni – deve cercare la “verità” nella sua integralità, anche oltre ciò che è strettamente necessario per condannare o assolvere». Il diritto alla verità, equiparabile in tutto e per tutto agli altri diritti umani, è stato rivendicato, in primis, dalle persone colpite dalle gravi violazioni che vengono perpetrate ad esempio durante le dittature; e si è esteso, tanto che dal 2010 il 24 marzo è la Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime ed è forse interessante notare come la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia messo in rilievo la dimensione collettiva del diritto alla verità, così come aveva sottolineato anche Torquato Secci.
ANTONELLA BECCARIA
Giornalista, saggista e audiodocumentarista, ha lavorato a produzioni per Rai 1, Rai 3, Rai Radio 3, Sky e Crime+Investigation. Si occupa di terrorismo, strategia della tensione e criminalità organizzata. Tra i suoi libri più recenti, pubblicati per PaperFirst, ricordiamo: I soldi della P2 (con F. Repici e M. Vaudano, 2021), Dossier Bologna (2020) e Piazza Fontana. I colpevoli (2019).
CINZIA VENTUROLI
Professoressa a contratto al dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Bologna, si è occupata di storia della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e del dopoguerra, di storia di genere e di didattica della storia. Da molti anni lavora sulla storia italiana degli anni Settanta, con particolare attenzione ai movimenti politici, ai terrorismi e al rapporto fra storia e memoria. Per Castelvecchi ha pubblicato Storia di una bomba (2020).
2 agosto, 44 anni dopo
Sabato 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna l’esplosione dell’ordigno collocato nella sala d’aspetto di seconda classe causò il crollo dell’intera ala ovest, l’onda d’urto mandò in frantumi i vetri in stazione e negli edifici vicini: è stato il più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra e fino al 2004, anno della strage di Madrid, il più grave avvenuto in Europa.
Gli 85 morti e gli oltre 216 feriti dallo scoppio della bomba alla stazione erano persone in viaggio per raggiungere località di villeggiatura o per ritornare a casa, stavano aspettando coincidenze o treni in ritardo, erano persone che in stazione svolgevano il proprio lavoro, erano militari che andavano in licenza, giovani e bambini che andavano in vacanza, anziani che si spostavano, persone andate in stazione ad aspettare parenti o amici di ritorno da altri viaggi e sono stati travolti dalle macerie in sala d’aspetto, nel bar, sul marciapiede, nel piazzale, nei sottopassaggi, sono stati colpite dalle schegge e dai vetri anche nei binari più lontani e sulla strada.
Guardando il lungo elenco dei morti la prima cosa che balza agli occhi è il grande numero di giovani che sono stati uccisi da quella bomba: 33 avevano fra i sedici e i ventisette anni, l’età media era 33 anni, poi si scorgono le famiglie coinvolte e, a volte, completamente annientate, e quindi i bambini, sette avevano fra i tre e i quattordici anni: la vittima più giovane, Angela Fresu, aveva 3 anni, la più anziana, Antonio Montanari, 86. Fra queste una giovane nata qui a Budrio, Franca Dall’Olio di 20 anni che in stazione lavorava. Erano persone come tante, che hanno lasciato parenti, amici, sogni, amori, speranze, dolori e gioie. La strage ci ha portato via il futuro, avventure e sogni che non si sono realizzate. Con le persone più anziane la bomba si è portata via il passato, la memoria, il racconto, la saggezza data dagli anni.
Dopo che i processi fra gli anni ’90 e l’inizio dei 2000 avevano individuato alcuni esecutori materiali e depistatori, dodici sono le sentenze pronunciate sui responsabili della strage fino a quegli anni, l’accento venne posto con forza sulla necessità di individuare i mandanti ed altri esecutori.
“La strage di Bologna ha avuto dei «mandanti» tra i soggetti indicati nel capo d’imputazione, non una generica indicazione concettuale, ma nomi e cognomi nei confronti dei quali il quadro indiziario è talmente corposo da giustificare l’assunzione di uno scenario politico, caratterizzato dalle attività e dai ruoli svolti nella politica interna e internazionale da quelle figure, quale contesto, operativo della strage di Bologna”
Così si afferma nelle motivazioni della sentenza Bellini di primo grado; i soggetti indicati nel capo d’imputazione sono i seguenti: Licio Gelli, Umberto Ortolani, in qualità di mandanti finanziatori; Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, il primo in qualità di mandante organizzatore, il secondo principalmente per l’attività di depistaggio. Non più processabili perché deceduti.
Le indagini e le sentenze dei processi il cui iter non è ancora concluso arricchiscono le nostre conoscenze. In alcuni casi, verità storica e verità giudiziaria non coincidono, in alcuni divergono: nel caso della strage alla stazione, non vi è evidenza di contraddizioni tra la ricostruzione giudiziaria e quella storica. Abbiamo quindi un quadro di quell’attentato: quella strage chiudeva il secondo periodo della strategia della tensione, una strategia messa in atto dal terrorismo neofascista con la collaborazione e la protezione di uomini dei servizi segreti e di persone come Licio Gelli che volevano così minacciare, snaturare, limitare quella democrazia che aveva le sue radici nella Costituzione repubblicana.
La memoria ci avvicina a tutti loro: alle vittime e a chi ha reagito per difendere la nostra democrazia in cui iscritti i nostri doveri e i nostri diritti, fra questi il diritto alla verità e alla conoscenza: la democrazia è piena solo se anche questi diritti vengono rispettati.
Le condanne:
Ad oggi, sono stati condannati in via definitiva come esecutori materiali i terroristi neofascisti dei NAR Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, e per attività di depistaggio il capo della loggia P2 Licio Gelli, gli ufficiali dei servizi segreti Pietro Musumeci (P2) e Francesco Belmonte e il faccendiere Francesco Pazienza. In secondo grado è stato condannato anche Gilberto Cavallini per strage, e nel cosiddetto processo ai mandanti sono stati condannati, sempre in secondo grado, Paolo Bellini, l’ex capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel, e Domenico Catracchia, ex amministratore di condomini in via Gradoli a Roma, accusato di false informazioni al pubblico ministero al fine di sviare le indagini.
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Come nasce nel 1943 la Pastasciutta antifascista
Il nostro Paese ha un calendario civile.
Di ogni evento che fa parte di questo calendario abbiamo, o per meglio dire, dovremmo avere memoria, perché è solo con questa che ci connettiamo al nostro passato e possiamo comprendere il presente e progettare il futuro. La memoria conserva promesse e potenzialità: non sembri quindi un azzardo affermare che la memoria è carica di futuro, di speranza e di progetti.
Come è noto il 25 luglio 1943 il gran consiglio del fascismo vota l’ordine del giorno Grandi che mise in minoranza Mussolini dopo ormai un ventennio di regime totalitario e una guerra che ha prostrato il Paese.
Quel 25 luglio 1943 era domenica. L’Italia era in guerra da tre anni. La giornata era stata afosa in quasi tutta la penisola. Alle 22:45 l’EIAR interruppe un concerto radiofonico e l’annunciatore con voce stentorea e «littoria» lesse un comunicato straordinario portato di persona dal ministro della Real Casa, il duca Acquarone:
«Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini…»
Il nuovo presidente del consiglio era Pietro Badoglio, il Maresciallo d’Italia, il duca di Addis Abeba, l’ex capo di stato maggiore generale. Il comunicato si concluse con la sola Marcia Reale, non più abbinata a «Giovinezza».
Molti cittadini Italiani speravano che quel 25 luglio segnasse la fine della guerra e
“la Liquidazione totale del fascismo e di tutti i suoi strumenti di oppressione; il Ripristino di tutte le libertà civili e politiche prima fra tutte la libertà di stampa; la Libertà immediata di tutti i detenuti politici; l’Abolizione delle leggi razziali; e la Costituzione di un governo formato dai rappresentanti di tutti i partiti che esprimano la volontà nazionale”
così come possiamo leggere in un appello firmato da: Partito d’Azione, Gruppo di Ricostruzione Liberale, Movimento di Unità Proletaria per la Repubblica Socialista, Partito Democratico Cristiano, Partito Socialista e Partito Comunista.
Nel ricordo dell’antifascista Ada Rossi, il 26 luglio, a Reggio Emilia:
«c’era tanta gente che gridava, tutti avevano il garofano rosso, c’erano bandiere, bandiere rosse e anche tricolori»
e, a Milano, vide su un vagone la scritta «oggi rigaglie» e sotto «del duce»:
«La locomotiva del treno sul quale montai, che veniva da Bologna, aveva due bandiere, da una parte e dall’altra di un cartello che diceva “viva la libertà”»
La mattina del 26 a Bologna, spontaneamente, molti cittadini scesero in piazza sventolando bandiere tricolore. Ezio Cesarini, giornalista de “il Resto del Carlino”, improvvisò un comizio in Piazza Maggiore e dopo di lui parlò lo scrittore Antonio Meluschi. Antifascisti entrarono nella torre dell'Arengo ed azionano il grande battaglio del campanone. Un gruppo di manifestanti invase lo stadio, il Littoriale, abbattendo in parte il monumento equestre di Mussolini. In città non vi furono atti di violenza nei confronti dei fascisti.
A Budrio, un aderente al Partito fascista annottava sul suo diario:
28 luglio - E' stato tolto dalla casa della Partecipanza il ricordo marmoreo che ricordava la sede del 1 ° Fascio di Budrio.
29 luglio - E' stato tolto il ricordo marmoreo murato nella casa del Credito Romagnolo nel locale della quale fu fondato il Fascio di Budrio il 5 aprile 1920.
31 luglio - Si tolgono tutte le insegne del fascio littorio nella facciata della Casa del Fascio e dentro la stessa. Viene pure tolta la lapide che ricordava la conquista dell’impero...
1 agosto - Dall’annuncio delle dimissioni di Mussolini nessun incidente fino ad oggi si è verificato all’infuori di qualche scambio di parole animate subito placate.
Il 27 luglio 1943 a Campegine i Cervi insieme ad altre famiglie del paese, portarono la pastasciutta in piazza, nei bidoni per il latte. C’era la fame, ma c’erano anche la voglia di uscire dall’incubo del fascismo e della guerra, il desiderio di “riprendersi la piazza” con un moto spontaneo, dopo anni di adunate a comando e di divieti.
Alla fine degli anni Ottanta si ebbe la felice intuizione di riproporre l’antico gesto della famiglia Cervi e nacquero le “pasta asciutte antifasciste”.
Sappiamo che la storia seguì un corso diverso da quello sperato da molti italiani; molti mesi sarebbero ancora passati per arrivare alla fine della guerra, alla liberazione dall’occupazione nazista e alla fine della Repubblica sociale.
Sappiamo anche che dal 25 luglio (e dal seguente 8 settembre) molti italiani e italiane posero le basi per la costruzione della nostra democrazia attraverso la Resistenza.
Link utili:
https://www.storiaememoriadibologna.it/archivio/eventi/caduta-del-fascismo-0
Sono passati 80 anni dalla morte dei sette fratelli Cervi
storia
Sette fratelli come sette olmi,
alti robusti come una piantata.
I poeti non sanno i loro nomi,
si sono chiusi a doppia mandata:
sul loro cuore si ammucchia la polvere
e ci vanno i pulcini a razzolare.
[…]
Ma tu mio popolo, tu che la polvere
ti scuoti di dosso
per camminare leggero,
tu che nel cuore lasci entrare il vento
e non temi che sbattano le imposte,
piantali nel tuo cuore
i loro nomi come sette olmi :
Gelindo,
Antenore,
Aldo,
Ovidio,
Ferdinando,
Agostino,
Ettore .
Nessuno avrà un più bel libro di storia,
il tuo sangue sarà il loro poeta
dalle vive parole,
con te crescerà
la loro leggenda
come cresce una vigna d’Emilia
aggrappata ai suoi olmi
con i grappoli colmi
di sole.
Gianni Rodari
LE TAPPE
28 dicembre 1943: “Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti”. (Alcide Cervi)
“Teste nuove” erano considerati i Cervi, nei dintorni; cioè gente che viene fuori ogni momento con qualche idea mai sentita. Come quella stalla modello, quell’abbeveratoio razionale, cose imparate sui libri: però la fattoria dei Cervi con tutte quelle idee nuove e tutte quelle schiene sempre al lavoro prosperava di bene in meglio, e l’allevamento di bestiame che misero su in pochi anni faceva invidia a tutti. […] Ecco i loro sette volti, magri, ostinati, forti: Gelindo, che già pare un uomo d’una generazione più anziana, e il taciturno Antenore, il più Intelligente di tutti mi dicono, e l’affilato volto di Aldo, il coraggioso militante, e l’industrioso Ferdinando. l’apicultore e lo svelto Agostino quello che sbrigava tutte le pratiche annonarie della famiglia e Ovidio, il più allegro di tutti, e Ettore, ancora ragazzo. […] Scrivete questo, dice Alcide Cervi, “dire uno era come dire sette e dire sette era come dire uno”.
Così Italo Calvino su “l’Unità” il 28 dicembre 1953.
Nove erano i figli di Alcide Cervi e di Genoeffa Cocconi: 7 fratelli e due sorelle, Rina e Diomira, che, come da tradizione, al matrimonio lasciarono la casa paterna. Poi nella grande casa entrarono le mogli e la compagna di 4 dei fratelli, e la famiglia si arricchì di 10 bambini e bambine ed uno era in arrivo nel 1943.
Genoeffa era la resdòra, la reggitrice, una donna forte ed attiva, figura fondamentale per la famiglia e per i figli ai quali aveva insegnato l’importanza della cultura, della curiosità e il piacere della lettura.
La vita della famiglia Cervi si intrecciava, inevitabilmente con la storia del nostro Paese.
25 luglio 1943
“Il 25 luglio eravamo sui campi e non avevamo sentito la radio. Vengono degli amici e ci dicono che il fascismo è caduto, che Mussolini è in galera. È festa per tutti. […] Papà – dice Aldo- offriamo una pastasciutta a tutto il paese. […] Facciamo vari quintali di pastasciutta insieme alle altre famiglie. Le donne si mobilitano nelle case intorno alle caldaie, c’è un grande assaggiare la cottura, e il bollore suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore. Guardavo i miei ragazzi che saltavano e baciavano le putele e dicevo: – Beati loro, sono giovani e vivranno in democrazia.
Alcide Cervi ricordava in questo modo la prima “pastasciutta antifascista”, nata per festeggiare la caduta del regime fascista e per esprimere la speranza di una pace immediata.
Come è ben noto le vicende si svolsero in modo ben lontano da quello sperato: la guerra continuò, l’8 settembre 1943 l’Italia rese noto l’armistizio firmato qualche giorno prima a Cassibile e Benito Mussolini confermò la sua stretta vicinanza ed alleanza con il regime nazista fondando la Repubblica sociale.
Iniziarono i primi atti di Resistenza e casa Cervi, sul podere dei Campirossi, tra Campegine e Gattatico, divenne un rifugio per i soldati che fuggivano dai diversi fronti e per i partigiani. I fratelli Cervi alla fine del settembre 1943 salirono sull’Appennino reggiano dove fecero le prime azioni militari, disarmando il presidio fascista di Toano (25 ottobre), poi rientrano in pianura, dove compiono un’altra azione di disarmo al presidio di S. Martino in Rio (6 novembre). (https://www.straginazifasciste.it/wp-content/uploads/schede/POLIGONO%20DI%20TIRO,%20REGGIO%20EMILIA,%2028.12.1943.pdf)
25 novembre 1943
Un plotone di militi della Guardia Nazionale Repubblica circondò l’abitazione dei Cervi, dopo una breve resistenza dall’interno della casa, i fascisti appiccarono il fuoco a stalla e fienile mettendo in pericolo anche le donne e i bambini. Gli assediati decisero di arrendersi e furono arrestati i sette fratelli, il padre Alcide, Quarto Camurri di Guastalla e gli altri uomini ospitati in casa.
28 dicembre 1943
Il 27 dicembre venne ucciso il segretario comunale di Bagnolo in Piano (RE), Davide Onfiani: i fascisti decisero di compiere una vendetta e il giorno successivo al Poligono di Tiro di Reggio Emilia furono fucilati i sette fratelli e Quarto Camurri. Le loro salme furono tumulate di nascosto.
Alcide rimase in carcere sino al 7 gennaio 1944 ignorando la sorte dei figli.
Con la moglie, le quattro nuore e dieci nipotini riprese a lavorare per ricostruire la casa e condurre la terra.
Il 10 di ottobre 1944 i fascisti tornarono e distrussero quel che i Cervi avevano ricostruito.
Il 14 novembre 1944 Genoeffa morì a 68 anni stroncata dal dolore.
Solo nell’ottobre 1945 fu possibile dare degna sepoltura alle salme dei sette fratelli
Il 7 gennaio 1947 il presidente della Repubblica Enrico De Nicola consegnò ad Alcide Cervi sette Medaglie d’argento al valore militare.
LA MEMORIA
Alcide divenne la memoria dei suoi figli, affiancato poi dai nipoti: erano in molti ad andare a Campegine, accolti a casa Cervi, per ascoltarlo: Gassman racconta i fratelli Cervi, 1963
https://www.raiplay.it/programmi/gassmanraccontaifratellicervi
La vicenda dei Sette fratelli è stata per molti versi emblematica: il 7 luglio 1960, nel corso di una manifestazione indetta a Reggio Emilia per protestare contro il governo Tambroni, furono uccisi cinque lavoratori e l’anno successivo Fausto Amodei scrissee una canzone in cui si legano questi caduti alla memoria dei fratelli Cervi: “Sangue del nostro sangue nervi dei nostri nervi /Come fu quello dei Fratelli Cervi”.
Un altro momento decisivo nella costruzione della memoria dei Cervi è l’uscita, nel 1968, del film di Gianni Puccini I sette fratelli Cervi, https://www.youtube.com/watch?v=ztLR6n2Vzm8.
Ora casa Cervi è un luogo di memoria, di conoscenza e impegno. (https://www.istitutocervi.it/istituto-alcide-cervi/)
Per saperne di più
- https://www.istitutocervi.it/istituto-alcide-cervi/la-nostra-storia/
- https://museonazionaleresistenza.it/story/dalla-storia-alla-memoria-i-fratelli-cervi/
- I miei sette padri (Documentario, regia di Liviana Davì, 55′, 2023) https://youtu.be/d9fJzqkoZ44?si=jcZem40euVqOjtBW
- Alcide Cervi, I miei sette figli, (a cura di Renato Nicolai), Editori Riuniti, Roma 1955;
- Margherita Agoleti Cervi, Non c’era tempo per piangere, CGIL 1994;
- Laura Artioli, Con gli occhi di una bambina. Maria Cervi, memoria pubblica della famiglia, Viella, Roma, 2020.
25 aprile 2023. Cos'ha detto la sindaca, in piazza Filopanti
storia
È il 78esimo anniversario della Liberazione d’Italia.
I simboli sono importanti, ci tengono insieme, ci fanno riconoscere in qualcosa. E questo è senza dubbio il giorno più importante per la Repubblica Italiana, per la democrazia, per la nostra convivenza civile.
Celebriamo la Festa della Liberazione. Festeggiamo il 25 aprile 1945 come data fondativa, senza la quale non sarebbe stato possibile tutto il resto, a partire 2 giugno 1946, il giorno del Referendum in cui gli italiani scelsero la Repubblica e chiusero con una monarchia complice della dittatura, dei crimini politici e delle discriminazione razziali e delle deportazioni.
Liberazione da cosa?
L’Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 è un Paese occupato da un esercito straniero, quello tedesco. Inizia lì la Resistenza che ha le radici nell’antifascismo sviluppato fin dalla metà degli anni venti. La Resistenza è un movimento europeo e in Italia fu caratterizzata dall’impegno unitario di molteplici e talora opposti orientamenti politici: comunisti, azionisti, socialisti, democristiani, repubblicani, monarchici, in maggioranza riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).
Com’è stato scritto da Marino Sinibaldi in “la Resistenza delle persone”
Si arrivava a combattere per destino personale o familiare, come antifascisti o figli di perseguitati da sempre, oppure per una conversione improvvisa, che di colpo rompeva con tutto quello che si era stati e in cui si aveva creduto: la famiglia, la fede, l’educazione. Si arrivava con la gioia di liberarsi o con il dolore di vendicarsi, con l’orgoglio di prendere in mano il proprio destino o con la disperazione di chi non ha alternative. Per ragioni diverse e diversamente alte.
Queste motivazioni comuni non indeboliscono l’immagine della Resistenza ma ne esaltano l’umanità. Restituiscono la sua verità di fenomeno complesso e lo strappano a qualunque mitizzazione. Evitano che diventi qualcosa di inaccessibile, quasi di inconcepibile. Non lo fu: fu una esperienza coraggiosa e in qualche caso eroica di uomini e donne comuni.
Si disse e si sente ancora dire: “dopotutto la Resistenza non ha avuto nessun peso militare. Si sarebbero potute evitare tante sofferenze e tanti morti…”.
Sappiamo che non è così, per almeno due grandi motivi. Innanzitutto, dal punto di vista strettamente militare il ruolo della Resistenza Italiana nella vittoria alleata fu molto significativo. Lo dicono i fatti: occupare valli e colline, bloccare vie di comunicazione, liberare e governare per mesi interi territori e intere città, tenere impegnate fino a 7 divisioni tedesche non sono cose irrilevanti, tutt’altro! Lo riferiscono con chiarezza i comandanti tedeschi che parlano, nei loro bollettini di guerra, della “tenace resistenza” opposta dai terroristi (così erano definiti i partigiani dai tedeschi). Non ci sono solo le squadre dei combattenti partigiani sui monti e sulle colline. Nella Resistenza, giustamente, si identifica la lotta disperata dei militari italiani nei sobborghi di Roma dopo lo sbando seguito all’8 settembre ‘43, così come la vicenda tragica dei reparti dell’esercito rimasti isolati in Grecia e nei Balcani, come la divisione Aqui a Cefalonia. E c’è la guerra dei Gap nelle grandi città, rese insicure e pericolose per gli occupanti nazisti. Il comandante degli eserciti alleati nel Mediterraneo, il generale Alexander, disse di aver incominciato a rispettare gli italiani dopo aver saputo dell’attacco di via Rasella, quando 17 partigiani osarono sfidare in pieno centro un battaglione tedesco armato.
Oltre a tutto questo, c’è il secondo motivo che è un elemento ideale, simbolico e anche politico e culturale: la Resistenza mostrò al mondo che tanti italiani, molti dei quali giovani che avevano vissuto tutta la loro vita sotto il regime, il fascismo lo rifiutavano, non ci credevano più, volevano un’Italia libera e democratica e che per questa erano disposti a mettere in gioco tutto, anche la loro vita. Il solo fatto di aver mostrato al mondo questa nuova Italia basterebbe a rendere preziosa – anzi fondamentale – quella lotta: la lotta di liberazione la cui vittoria oggi festeggiamo.
Un padre della Repubblica, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, affermò, nel discorso alle Nazioni Unite del 1946 rivolgendosi ai vincitori, che l’Italia non doveva essere considerato un Paese sconfitto. Poté farlo grazie alla Resistenza in tutte le sue forme.
“Le perdite nella Resistenza contro i tedeschi, prima e dopo la dichiarazione di guerra – disse De Gasperi – furono di oltre 100 mila uomini tra morti e dispersi, senza contare i militari e civili vittime dei nazisti nei campi di concentramento e i 50 mila patrioti caduti nella lotta partigiana.”
Ecco quindi il valore della Resistenza.
Guardate, non c’è niente di retorico in tutto questo, ma qualcosa di sostanziale. Per ridare dignità alla propria nazione, dopo che si è macchiata di crimini indicibili, serve riscattarsi e cambiare strada, non rimanere alla finestra a guardare. È la scelta dei singoli che diventano una comunità, dunque, a cambiare la direzione della storia, sfidando eserciti più attrezzati e numerosi, repressioni violente, dittature apparentemente inossidabili.
E allora, per esempio, guardiamo all’esperienza del Rojava nella Siria del Nord che, oltre a essere stata determinante per la sconfitta militare dell’Isis, promuove una nuova forma di democrazia che in Medio Oriente non esiste e che si batte per una società migliore, a partire dall’uguaglianza di genere e dalla sostenibilità ambientale. Così come nella lotta dei giovani iraniani contro il regime teocratico dopo la morte in carcere di Mahsa Amini, ritroviamo oggi il senso e i valori di chi si oppose al fascismo e al nazismo. Come ritroviamo quei valori nelle proteste popolari in Georgia contro un governo sotto l’influenza russa, con le bandiere dell’Unione Europee sventolate come simbolo di speranza per la libertà e la democrazia.
Da questa piazza seguiamo con apprensione l’evolversi delle vicende che riguardano il Sudan, in queste ore.
Battaglie e lotte che dovrebbero riguardarci più da vicino e che invece troppo spesso sentiamo come lontane.
Volutamente in questo giorno non voglio dare spazio alle polemiche politiche sul 25 aprile. Sono polemiche miserevoli su una pagina della nostra storia – la storia di tutti noi – che merita altro destino. Fa male che a farle sia chi ricopre la seconda carica dello Stato o chi dal governo parla di sostituzione etnica con estrema leggerezza.
Come disse una volta l’intellettuale e padre costituente Vittorio Foa a un senatore del Movimento Sociale “Se aveste vinto voi, io sarei ancora in prigione. Siccome abbiamo vinto noi, tu sei senatore. Questa è una differenza capitale.”
“Perché mai dovrebbero essere vissute come date divisive?” si chiedeva Liliana Segre nel presiedere la prima seduta del Senato nell’ottobre scorso.
E rimetteva al centro l’alto valore politico e sociale della Costituzione Italiana, nata dalla Resistenza: “se le energie – ha detto Liliana Segre – che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione, peraltro con risultati modesti e talora peggiorativi, fossero state invece impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice.”
In piena pandemia, sulle pagine del Post, il giornalista Marino Sinibaldi scriveva:
“Nella storia di una nazione non sono molti i momenti in cui ci si trova tutti insieme dentro un dramma che consuma vite in gran numero e per lungo tempo, cambia spazi e tempi di ogni esistenza, penetra nelle emozioni più intime fino ai sogni, altera le persone e le relazioni. Ancor meno quelli in cui la reazione non è solo la soluzione o l’aggiustamento personale ma una qualche azione collettiva aperta e responsabile. Nella storia degli italiani ce n’è uno solo, di questi momenti, ed è la Resistenza. Alcune centinaia di migliaia di uomini e donne in maniere e forme diverse, mettendo in gioco e rischiando la vita intera o qualcosa di meno fatale scelsero il modo giusto per affrontare il dramma collettivo.
Che vuol dire il modo giusto?
Quello che consentì tanto il riscatto individuale quanto la costruzione di una società migliore per tutti: la liberazione morale (e personale) e quella politica collettiva.”
Io credo che in questi anni, in questo mondo così caratterizzato da individualità, di destini personali che vengono prima di quelli collettivi, di diritti sociali, civili e ambientali non ancora riconosciuti, di dibattiti su accoglienza, di privilegi, di conformismo e omologazione, di battaglie ancora in corso per la qualità del lavoro, di mancanza di equità di genere, di soffitti di cristallo da rompere.. ecco io credo che di fronte a questo mondo, prenderci il tempo di studiare, riflettere e attualizzare la Resistenza sia un grande esercizio per irrobustire il nostro essere e sentirci cittadini, parte di una comunità.
Assunzione di responsabilità, ricerca della verità, necessità della trasformazione e della ricostruzione: sono le sfide che una generazione si è trovata di fronte quasi ottanta anni fa.
Sono lontane e imparagonabili, certo, ma sono così diverse dalle sfide che stiamo affrontando più o meno consapevolmente in questo nostro tempo?
Per questo come amministrazione vogliamo legare fortemente il 25 aprile al concetto di scelta.
Lo facciamo chiedendo ai ragazzi delle scuole di raccontarci come vedono il mondo, come elaborano la storia nei fatti di oggi. Lo facciamo come cittadini non voltandoci dall’altra parte quando qualcosa non va come dovrebbe andare. Esprimendo le nostre idee, promuovendo un approccio empatico nei confronti degli altri. Ma sapendo, allo stesso tempo, da che parte stare. Quali sono i valori che ci guidano come comunità larga.
Per questo anticipo che partirà un progetto biennale che ci condurrà al 25 aprile 2025, anno in cui celebreremo gli 80 anni della Liberazione.
Negli anni ho avuto la fortuna di salire su questo palco con la bandiera dell’Anpi, insieme a Claudio Galli, partigiano budriese e persona cara a cui, ancora oggi, siamo profondamente legati. Ho fatto parte dell’ultima generazione di antifascisti che ha avuto la possibilità di essere con lui qui il 25 aprile e in tanti altri momenti di trasmissione della memoria. Galli ci ha insegnato, con molta umanità e semplicità, l’importanza di quella bandiera, la centralità dei valori di cui è stato instancabile testimone e di cui siamo diventati noi, ora, promotori.
La sua tenacia, oggi, è la nostra.
Anche per questo motivo, essere qui per il discorso della Liberazione – lo ammetto – con la fascia tricolore è una grande emozione che condivido insieme a voi, nella piazza del nostro paese.
Grazie. Viva la Resistenza. Viva la Liberazione d’Italia.
Antifascismo è la Costituzione, nelle parole di Togliatti e Aldo Moro
storia
Di fronte alle incredibili parole del presidente del Senato Ignazio Benito La Russa, secondo cui “nella Costituzione non c’è alcun riferimento all’antifascismo”, richiamiamo le parole di Palmiro Togliatti (PCI) e Aldo Moro (DC).
“Il problema – dice La Russa – è che di quei valori si sono appropriati il Pci e poi la sinistra. Questo è un fatto storico. E a questo mi sono sempre opposto”. Questo è falso e non coglie la complessità e la ricchezza della politica italiana. Gli sarebbe bastato leggere queste poche righe, così incredibilmente simili, pronunciate durante i lavori dell’Assemblea Costituente da due leader distanti e divisi su quasi tutto.
Moro poi ribadì quei concetti anche trent’anni dopo, segno che l’appropriazione di cui parla La Russa non ha fondamento e non è un buon argomento per evitare di dirsi, oggi, antifascisti.
Palmiro Togliatti all’Assemblea Costituente sul progetto di Costituzione, 11 Marzo 1947:
–> Noi siamo responsabili del futuro verso i nostri figli, verso i nostri nipoti. Per questo facciamo una nuova Costituzione, cioè vogliamo fondare un ordinamento costituzionale nuovo, tenendo conto di quello che è accaduto, cioè tirando le somme di un processo storico e politico che si è concluso con una catastrofe nazionale.
Per questo, vogliamo non una Costituzione afascista, ma antifascista. Quando diamo questo appellativo alla Costituzione che stiamo per fare, intendiamo precisamente dire che la Costituzione ci deve garantire, per il suo contenuto generale e per le sue norme concrete, che ciò che è accaduto una volta non possa più accadere, che gli ideali di libertà non possano più essere calpestati, che non, possa più essere distrutto l’ordinamento giuridico e costituzionale democratico, di cui gettiamo qui le fondamenta.
[…]abbiamo cercato di arrivare ad una unità; cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, ma un terreno comune che fosse abbastanza solido perché si potesse costruire sopra di esso una Costituzione, cioè, un regime nuovo, uno Stato nuovo e abbastanza ampio per andare al di là anche di quelli che possono essere gli accordi politici contingenti dei singoli partiti che costituiscono, o possono costituire, una maggioranza parlamentare. Ritengo questo sia il metodo che doveva e deve essere seguìto se si vuol fare opera seria.”
Aldo Moro all’Assemblea Costituente, 13 marzo 1947 e in “Attualità e valori della Costituzione”, Il Popolo, 30 dicembre 1977:
–> “Non possiamo fare una Costituzione afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro Paese un movimento storico d’importanza grandissima il quale nella sua negatività ha travolto per anni la coscienza e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella Resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale. Non avremmo ancora detto nulla se ci limitassimo ad affermare che l’Italia è una repubblica, o una repubblica democratica”.
–> La Costituzione repubblicana rappresenta il solido fondamento della nostra convivenza civile. In essa si rispecchiano, in modo armonioso, diverse tradizioni, culture, sensibilità ad esperienze politiche. Non si tratta di un mediocre compromesso, ma di un atto di grande responsabilità, nel rispetto di tutti verso tutti, garanzia perciò di pace, pur nel tumulto delle cose nella vita sociale e politica. Chi ha vissuto il momento della elaborazione dello storico documento non può dimenticare l’elevatezza del dibattito, la passione civile, la concordia nazionale nell’affermazione di alcuni valori essenziali della nostra vita associata. Saremo oggi meno coraggiosi e meno responsabili? Io credo di no. Sappiamo dunque che un patto ci unisce pur in presenza della diversità e delle divergenze che hanno pieno diritto di esistere nel nostro sistema. Ma proprio per questo è importante che il patto ci sia, che esso venga rispettato, che costituisca punto di riferimento costante della nostra vita politica.
Due linee di ferro tracciano il sentiero
Pubblichiamo la testimonianza di Daniel Carnevale su una visita ad Auschwitz-Birkenau di 17 anni fa.
Le sensazioni e il ricordo di quella giornata sono talmente vive che Daniel scrive al presente, come se Shlomo stesse raccontando quei fatti qui e adesso.
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Due linee di ferro tracciano il sentiero, siamo fermi in silenzio.
Il freddo entra nelle ossa e cerco disperatamente la tasca giusta del giubbotto per riscaldare le mani.
Shlomo ci guarda uno ad uno con quei grandi occhiali da vista e con quel suo sguardo profondo, da perdersi. Ci racconta di quando quella notte arrivò proprio su quei binari, su quelle due linee fatte di ferro dopo un viaggio su un carro bestiame, prelevati, caricati a forza, picchiati. Giorni e giorni lì dentro. Si dormiva in piedi dalla quantità di persone, c'era chi crollava e chi moriva. Ogni tanto il treno si fermava nel nulla e le persone cominciavano a urlare disperate. Poi l'ultima fermata, si aprono gli sportelli. Il caos. Cani, militari urlanti che impartivano comandi. E loro di nuovo picchiati. Poi i maschi da una parte, le femmine dall'altra. Disse che non sapeva dove avrebbero portato sua madre e le sorelle, lo scoprì in seguito. Ci disse che il medico che lo visitò lo ritenne forte.
Shlomo Venezia aveva ventuno anni.
Shlomo ad Auschwitz-Birkenau perse il nome.
Shlomo divenne 182727.
Shlomo fu obbligato a lavorare nei Sonderkommando.
Con la sua camminata, lenta e inesorabile, ci porta all'esterno del campo di concentramento, indica un cumulo di mattoni, ci spiega quale era il suo ruolo. Lui non si avvicina, ma ci invita a scendere le scale e guardare attentamente ogni mattone. Siamo dentro a quello che rimane della camera a gas.
Shlomo Venezia è uno dei pochissimi sopravvissuti di quelle squadre. Ci spiega che si sente fortunato, è vivo.
Da quell'esperienza di viaggio-studio sono passati 17 anni. Mi ha cambiato la vita, ha segnato un solco profondissimo.
Shlomo Venezia ha reso responsabili della memoria migliaia di studenti, me compreso. Il suo contributo è una fonte preziosissima di sapere. Non dimentico, non bisogna dimenticare.
Gli orrori che pervadono questo mondo sono la testimonianza che la memoria deve essere viva in ognuno di noi.
Daniel Carnevale
26 gennaio 2023
La marcia su Roma (e per Roma), cento anni fa
Oggi, 28 ottobre 2022, cade il centenario della data convenzionale della marcia su Roma, l'azione (durata in realtà diversi giorni) attraverso cui il fascismo ha di fatto preso il potere nel nostro Paese, culminata il 31 ottobre con l'arrivo a Roma di Benito Mussolini da Presidente del Consiglio, incaricato dal Re Vittorio Emanuele.
Riceviamo da Cinzia Venturoli un contributo scritto di grande interesse e lo pubblichiamo
Su camion messi a disposizione dagli agrari, su treni, in auto e a piedi, poco equipaggiati, armati in modo approssimativo, con simboli riferiti alla morte eroica (teschi, pugnali), con una organizzazione imprecisa, i gruppi di fascisti partiti da diverse città italiane arrivarono molto lentamente alle porte di Roma. Ci fu poco di eroico in quel viaggio e nessun effetto sorpresa, visto che da tempo si sapeva di questa marcia: “il fascismo alla conquista della capitale” era, ad esempio, il titolo di un articolo pubblicato il 6 agosto 1922 sull’Avanti!
Dopo il congresso fascista avvenuto il 24 ottobre 1922 a Napoli, il 27 ebbe inizio l’attacco delle milizie in varie province, con la presa di una serie di prefetture e di città così come successe a Bologna. https://www.bibliotecasalaborsa.it/bolognaonline/cronologia-di-bologna/1922/durante_la_marcia_su_roma_la_decima_legio_fascista_occupa_la_citt
Durante la marcia i fascisti aggredirono gli antifascisti, ma questo non fu un motivo di sorpresa, era infatti da oltre due anni che le squadre fasciste, armate, perpetravano gravi violenze contro movimenti, sindacati, organizzazioni, amministrazioni locali e partiti, antifascisti o non- fascisti, prima i socialisti e i comunisti, dopo la nascita di questo partito, poi i popolari e infine i liberali come Amendola e Gobetti o come don Minzoni ucciso ad Argenta. Vi erano aggressioni contro chiunque non si piegasse alle loro intimidazioni.
Ricorda Emilio Lussu
Un infermiere mi avvertì che un ferito gravissimo chiedeva di potermi vedere. Era un mio vecchio compagno di guerra: Efisio Melis, aveva una medaglia al valore militare. Dopo la guerra si era sposato e lavorava da operaio in officina. Era un antifascista molto conosciuto. Io lo vedevo spesso e gli ero affezionato. […]
Due suoi amici che lo avevano trasportato all’ospedale mi raccontarono la sua aggressione. Egli si trovava in una piazza, fra gli spettatori, al passaggio di una colonna fascista; aveva in braccio il suo bambino e, come gli altri, s’era anch’egli rifiutato di levarsi il cappello. Un fascista del suo rione gli aveva inferto perciò due pugnalate all’addome. Egli era un valoroso, ma il bambino gli aveva impedito di difendersi. Il medico che lo curava mi disse che non vi era alcuna speranza di salvarlo.
Una lunga scia violenta, che ebbe una tappa importante a Bologna nel novembre 1920 quando, per impedire l’insediamento della amministrazione socialista, si ebbero le aggressioni che portarono alla strage di Palazzo d’Accursio. https://www.storiaememoriadibologna.it/la-strage-di-palazzo-daccursio-1072-evento
Una strategia violenta e alla fine vincente non contrastata in alcun modo dallo stato liberale
Alle cinque del mattino del 28 ottobre 1922 il governo Facta decise di proclamare lo stato d’assedio, ma il re rifiutò di firmare il decreto che avrebbe potuto senza ombra di dubbio fermare quella marcia opponendo ai fascisti l’esercito. A combattere contro quella violenta manifestazione che aveva attraversato la penisola restarono solo gli antifascisti che non volevano l’occupazione della capitale.
Il 29 ottobre Benito Mussolini, che era rimasto a Milano, ricevette da Vittorio Emanuele III l'incarico di formare il governo e il 31 ottobre, in veste di presidente del consiglio, era a piazza Venezia con il re.
Il primo governo Mussolini, un governo di coalizione, ottenne la fiducia da una maggioranza formata da parlamentare liberali e del partito popolare (306 voti favorevoli e 116 contrari).
Se la marcia su Roma fu una intimidatoria prova di forza, la marcia per Roma, ovvero per far entrare i fascisti nelle “stanze del potere”, fu la combinazione di questa azione violenta e delle trattative che Mussolini portava avanti con Salandra, Giolitti e Facta per ottenere alcuni ministeri chiave.
La designazione a presidente del Consiglio andò quindi al di là delle stesse aspettative di Mussolini.
Il 6 novembre Benito Mussolini pronunciò alla Camera il discorso di insediamento:
Avrei potuto fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.
Il tempo della fascistizzazione completa dello stato si compì negli anni successivi: dapprima utilizzando i poteri costituzionali e poi, dopo l’omicidio dell’onorevole Matteotti, (https://www.raiscuola.rai.it/storia/articoli/2021/08/Il-delitto-Matteotti-e71cc4ba-48b0-426a-9dd3-f1d389103394.html), con l’emanazione delle “leggi fascistissime” che segnarono l’inizio del totalitarismo fascista.
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Per saperne di più:
Le origini del fascismo in Emilia-Romagna. Un progetto della Rete degli istituti storici della regione
“Hai presente la marcia su Roma?” podcast
https://www.reteparri.it/eventi/hai-presente-la-marcia-su-roma-ecco-il-podcast-con-chora-media-8842/
Bologna 1919-1922. Le origini del fascismo tra storia e media
https://www.istitutoparri.eu/bologna-1919-1922-le-origini-del-fascismo-tra-storia-e-media/
Un minuto di storia. 28 ottobre 1922 - La Marcia su Roma
https://archivio.quirinale.it/aspr/gianni-bisiach/AV-002-000278/28-ottobre-1922-marcia-roma
Marcia su Roma e dintorni
https://www.archivioluce.com/marcia-su-roma-e-dintorni/
Giulia Albanese, La marcia su Roma, Laterza, 2008
https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788842088141
Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni, Einaudi, 2014
(Foto tratta da Rai Scuola)
Il valore della Resistenza per l'Italia, nel ricordo delle vittime della strage di Vigorso
Il valore della Resistenza per l'Italia, nel ricordo delle vittime della strage di Vigorso
DISCORSO DELLA SINDACA DEBORA BADIALI
IN OCCASIONE DELLA COMMEMORAZIONE DELLA BATTAGLIA
DI VIGORSO E FIESSO, TENUTO IL 21 OTTOBRE 2022
Ci sono diversi modi affrontare fatti storici che nel nostro tempo vengono ricordati o celebrati con manifestazioni istituzionali.
- C’è la pura e semplice ricostruzione dei fatti, giusta e necessaria. È incredibile pensare che 78 anni fa, in questa giornata e proprio qui dove ci troviamo, si scatenò una battaglia tra i partigiani e militari tedeschi aiutati da italiani fascisti. Noi la guerra la vediamo da lontano, oggi purtroppo sempre da più vicino, ma mai l’abbiamo vissuta in modo diretto. E pensarla qui, dove viviamo, dove andiamo a scuola, dove facciamo sport, ci sembra incredibile.
- Poi c’è anche lo sforzo di capire perché le cose sono successe e che cosa hanno prodotto. Noi dobbiamo fare anche questa piccola fatica, per capire di più. Perché non ci possiamo fermare alla superficie delle cose.
Se leggiamo semplicemente le definizioni di Resistenza e di Guerra di liberazione, leggiamo per esempio su Wikipedia che:
1- La Resistenza italiana (anche detta Resistenza partigiana, o semplicemente Resistenza) fu l'insieme di movimenti politici e militari che in Italia, dopo l'armistizio di Cassibile, si opposero al nazifascismo nell'ambito della guerra di liberazione italiana.
Nella Resistenza vanno individuate le origini stesse della Repubblica Italiana: l'Assemblea Costituente fu in massima parte composta da esponenti dei partiti che avevano dato vita al Comitato di Liberazione Nazionale e che, a guerra finita, scrissero la Costituzione fondandola sulla sintesi tra le rispettive tradizioni politiche e ispirandola ai princìpi della democrazia e dell'antifascismo.
2- La guerra di liberazione italiana fu il complesso di operazioni militari ed azioni di guerriglia condotte durante la campagna d'Italia dagli Alleati (che ebbero un ruolo centrale), dall'Esercito Cobelligerante Italiano e dalle brigate partigiane della resistenza italiana contro i tedeschi (già fortemente indeboliti nel versante dell'Europa dell'est dall'URSS) e contro la Repubblica Sociale Italiana. La campagna si concluse con la liberazione dell'Italia dall'occupazione nazifascista.
Fin qui le definizioni. Proviamo adesso però a rispondere a tre domande. Sono interrogativi che ci dobbiamo porre per capire meglio e di più i semplici fatti.
La prima domanda
Chi combatteva nella Resistenza? Cioè chi decise di diventare partigiano? Erano in gran parte giovani, poco più che ragazzini. Avevano vissuto quasi solo il fascismo che ormai si era affermato da oltre 20 anni. E quel regime, che era l’unico che conoscevano, non lo volevano più. Li aveva portati a una guerra combattuta al fianco dei tedeschi contro le democrazie occidentali, una guerra disastrosa che portò fame, distruzione e morte. Infine, quando il fascismo cadde, arrivò anche l’occupazione militare tedesca, sostenuta da una parte di fascisti che decise di restare fedele a Mussolini e a Hitler.
Il secondo interrogativo
Perché lo faceva? Combattevano contro quell’occupazione militare perché l’Italia fosse libera. C’erano idee diverse su cosa dovesse essere l’Italia una volta finita la guerra. Ma, per prima cosa, volevano che fosse libera da un esercito straniero, libera di scegliere per il proprio futuro. Questo è un aspetto decisivo. Non è immaginabile che tutti i partigiani sapessero con chiarezza cosa volevano per il “dopo". Ma siamo certi su ciò che non volevano più: un regime violento e autoritario come quello fascista, l'occupazione militare di un esercito straniero.
La terza domanda
Cosa ha prodotto quello sforzo? Nella definizione sintetica che vi ho letto prima la risposta è molto semplice e corretta. L'Italia venne liberata, nacque la democrazia, fu scritta la Costituzione.
In realtà, arrivati a questo punto, si apre un mondo. E qui affrontiamo un’idea che aleggia sempre e che non dobbiamo nascondere. C’è chi è convinto la Resistenza non abbia avuto un ruolo decisivo, che la guerra di liberazione sarebbe comunque stata vinta lasciando combattere solo gli eserciti alleati. E che in fondo, anche senza la Resistenza, l’Italia si sarebbe rialzata, evitando tante vittime tra i partigiani e anche vittime civili nelle tante rappresaglie dei tedeschi e dei fascisti contro le persone inermi, le donne, i bambini, gli anziani.
Questo è un luogo comune, infondato dal punto di vista militare e sbagliato dal punto di vista storico e politico. Non è così, per almeno due grandi motivi.
Innanzitutto l’aspetto militare. la Resistenza ha avuto un ruolo significativo e importante. Fare la guerra nel nord Italia, nelle valli e nelle colline, ma anche qui in pianura, bloccare vie di comunicazione ai tedeschi, liberare e governare per mesi interi territori, rendere la vita difficile ai nazisti e fascisti, tenere impegnate intere divisioni dell’esercito tedesco dalle colline del Piemonte all’Appennino tosco emiliano fino a Roma, la capitale che ha dato più filo da torcere ai tedeschi tra quelle occupate come Parigi, Copenaghen, Belgrado… Tutto questo non fu affatto irrilevante per gli esiti della guerra.
E poi c’è l’aspetto politico e storico. Senza la Resistenza e i partigiani l’Italia non si sarebbe rialzata dal punto di vista morale, dopo la vergogna del fascismo durata 20 anni e il disastro dell’alleanza con il nazismo, comprese le leggi razziali e poi le deportazioni di ebrei e oppositori politici nei campi di concentramento, anch'esse volute dal regime di Mussolini.
Il valore della Resistenza è militare, politico, culturale e, in generale, risiede nell’immagine che ha dato al mondo dell’Italia. In quegli anni si diffidava del popolo italiano, anche perché qui era nato il fascismo per poi diffondersi in Europa. Ma la Resistenza ha mostrato al mondo che in Italia c’erano tantissime persone (per lo più giovani) che non volevano più il regime e volevano un’Italia libera e democratica. Mostrare al mondo cos’era la nuova Italia fu un elemento decisivo, che senza la Resistenza non sarebbe stato possibile.
Tutto questo non è poco, anzi è tantissimo. Per questo siamo qui oggi.
Viva la Resistenza! Viva l’Italia!
“Il cielo a Budrio era rosso” - il diario di Dario Nobili
“Il cielo a Budrio era rosso”
Il ragazzino che contava le bombe. 1941-1945
“Estate 1942. La Nita (Mazza) pensa di portarmi a Budrio con lei. Vado perciò in campagna dove in compagnia del garzone dei Mazza, che si chiama Menotti, mi esercito al lavoro dei campi e mi diverto nell’andare a cercare i nidi, i ranocchi, e i pesciolini.”
Cosi inizia la vita da sfollato a Budrio di Dario Nobili, bambino undicenne bolognese che racconta in un diario la sua vita degli anni di guerra e che documenta dal 1941 al 1945 il tempo di un ragazzo che è anche il tempo di un evento che sconvolgerà il mondo.
Nel mezzo c’è la vita di un bambino che diventa adolescente e che annota nel suo diario segreto i giorni di passeggiate e scoperte nella campagna, ma anche i bombardamenti, le morti, gli orrori: il tutto mescolato insieme, la quotidianità e il terrore.
Fino alla fine della guerra Dario annota scrupolosamente gli eventi drammatici che vive, in particolare i bombardamenti, le morti dei suoi famigliari sotto le bombe, ma anche i momenti di “normalità” come quando va a Budrio a comprare il pane, o incrocia l’osteria di “Piren”.
“Autunno e inverno 1943-1944. Eccetto i monti, a Budrio non manca nulla. Campi verdi e fertili a perdita d’occhio. Proprio dinnanzi le nostre finestre scorre il fiume Idice. (…) Siamo sufficientemente vicini alla stazione e al paese che abbiamo i mezzi per eventualmente recarci in città” Faccio qui di sotto uno schizzo della casa che abitiamo e che il babbo ha scherzosamente denominato “Villa Pedagna”.
Da questo “osservatorio” Dario racconta la vita a Budrio, tra quotidianità e terrore, annota scrupolosamente tutti i bombardamenti cui assiste (gli aerei che arrivano da est, da sud, da ovest) e i tragici episodi dell’occupazione tedesca a Budrio.
“10/6/1944. Ritornando stamattina da Budrio, mentre passavo da una stradetta di campagna, una pallottola di fucile è passata due metri circa davanti a me. (…) Nemici personali non ne posso avere, a tredici anni. Tutto bene”
“25/6/1944. Stanotte i tedeschi ubriachi hanno fatto irruzione in casa nostra, e dopo aver cercato di tirare giù gli usci, se ne sono andati”
“30/6/1944”. La stazione di Budrio è stata mitragliata alle ore 15,15. Tutto bene”
“1/7/1944. Oggi, alle ore 12, è avvenuto il primo bombardamento di Budrio. Le bombe, sebbene fossero abbastanza grosse, si interravano e facevano poco rumore. Ne è cadute una trentina.”
“2/7/1944. Secondo bombardamento di Budrio. La zona di Cento, a tre o quattro chilometri da noi è stata bombardata e mitragliata alle ore otto”.
“5/7/1944. Stamattina Budrio e il treno che veniva da Bologna sono stati mitragliati alle ore sette. Alle 8 è avvenuto il terzo bombardamento. Dodici morti e sessanta feriti”
“20/7/1944” Quarto bombardamento di Budrio. Fortissimo. Alle 0 e 50 siamo stati svegliati dalle prime bombe. Ci siamo vestiti mentre scappavamo e siamo usciti. Il cielo era rosso a causa dei razzi illuminanti come per un gigantesco incendio. Molti razzi illuminavano il ponte e tutta la zona di Budrio tanto che ci si vedeva come di giorno. Siamo scesi in rifugio insieme alla zia Rina che ha trovato nella paura la forza di scappare. Mentre gli aeroplani ci sorvolavano hanno cominciato a sganciare grosse bombe sopra i capannoni. Tanto le detonazioni che lo spostamento erano fortissimi sebbene fossimo in rifugio, tanto che il babbo e la signora Ardea, che ha sentito tutti i bombardamenti di Bologna, ha detto di non averne mai sentiti di cosi forti. Ho trovato delle schegge e un razzo illuminante a trenta metri da noi. Tutto bene”
Dario resta a Budrio fino agli inizi del 1945, poi con la sua famiglia torna a Bologna, che non è meno sicura di Budrio e attenderà li la liberazione. Il 25 aprile 1945 scriverà sul diario:
“Germania Kaputt! Dopo sessantanove mesi di lotta la Germania hitleriana è finalmente crollata”
Queste sono solo alcune delle notizie che Dario Nobili annota nel corso degli anni di guerra.
Il suo diario, “Diario di guerra. 1940-1945”, conservato e riscoperto grazie ai suoi famigliari, è stato di recente pubblicato da Pendragon, a cura di Mirco Dondi, nella collana dell’Istituto Storico Parri di Bologna. Un documento straordinario che ci consente oggi di approfondire in modo inedito un periodo drammatico della nostra storia.